i due, rimase vincitore e imperatore il giovine sacerdote
[217-218]. Il quale portò sul trono di Roma, pur giá tanto macchiato, nuove
infamie, nuove superstizioni; e fu trucidato in men di quattro anni dalle
guardie [218-222].--Alessandro Severo cugino di lui, e adolescente egli
pure, fu tuttavia diversissimo. Costumato, belligero, restaurator di
discipline, guerreggiò co' persiani, i quali avean testé distrutta la
potenza de' parti non saputa distruggere mai da' romani, ed avean cosí
fondato un nuovo imperio, anche piú pericoloso. E guerreggiando co' germani
fu trucidato da' soldati impazienti della rinnovata disciplina
[222-235].--Massimino, un soldato trace semibarbaro e feroce, mal innalzato
cosí, guerreggiò tuttavia felicemente contra i germani, i pannoni e i
sarmati stessi piú lontani; ma intanto furono gridati in Roma, prima due
Gordiani padre e figlio; poi, morti questi, un Papieno, un Balbino. Contra
i quali scendendo Massimino dal Sirmio, furono uccisi tutti e tre, ciascuno
da' propri soldati, e rimase solo un terzo Gordiano, figlio e nipote de'
due altri [237-238].--Il quale, quasi fanciullo, regnò prima sotto la
tutela d'un prefetto del pretorio, e fu sei anni appresso ucciso da un
altro [238-244].--Costui, un arabo, chiamato Filippo, tenne cinque anni
l'imperio, disputatogli in varie province, toltogli colla vita da Decio suo
capitano, ch'egli avea mandato a combattere competitori in Pannonia
[244-249].--Decio guerreggiò contro a' goti invadenti per la prima volta
l'imperio di qua dal Danubio, e morí col figlio, sconfitto da essi
[249-251].--L'esercito acclamò Gallo, l'uccise tra pochi mesi; acclamò
Emiliano e pur l'uccise, acclamando Valeriano [251-253].--Valeriano ebbe a
difendere i limiti giá intaccati in tutto il giro dagli alemanni sul Reno e
l'alto Danubio, da' goti sul basso, dai persiani sull'Eufrate. E li difese
contro a' primi e a' secondi, ma succombette e fu preso da' terzi
[253-259].--Succedettegli Gallieno figliuol suo, giá associato all'imperio;
e quindi vidersi due imperatori romani, padre e figlio, languire e perir
l'uno ne' ferri barbarici, seder l'altro sul maggior trono del mondo; e
sorger quindi tanti altri imperatori in ogni provincia, che chi ne conta
diciannove, chi trenta, detti nella storia i trenta tiranni. Allora ebbero
grand'agio i barbari ad ordinarsi, ad assalire su tutti i limiti. E tre
grandi leghe di genti germaniche ne sorsero o crebbero dalle bocche del
Reno alle bocche del Danubio: quelle de' franchi, degli alemanni e dei
goti, che furon poi le principali distruggitrici dell'imperio
[259-268].--Morto Gallieno, successegli, chiamato da lui, miglior di lui,
Aurelio Claudio che vinse prima uno de' competitori, gli alemanni, poi i
goti, ma morí in breve di peste a Sirmio. Il senato gl'innalzò poi
meritamente una grande statua d'oro in Campidoglio [268-270].--Furono
acclamati dal senato Quintilio fratello di Claudio, e dall'esercito,
Aureliano; e uccisosi il primo, dopo pochi giorni di porpora, rimase solo
il secondo e regnò gloriosamente cinque anni. Respinse gli alemanni e i
goti, non piú invasori solamente de' limiti, ma d'Italia, dell'Umbria! E
vinse e prese Zenobia, la famosa regina di Palmira, invaditrice d'Asia
minore, Siria ed Egitto. E vinti i rimanenti tiranni in Gallia, Spagna e
Britannia, ed abbandonata la Dacia e cosí ridotti i limiti di Traiano, ma
restituiti tutt'intorno quelli d'Augusto, poté apparir vincitore,
restauratore dell'imperio. Ma fu per poco: dopo cinque anni gloriosissimi,
fu ucciso come uno de' volgari imperatori, e ricadde l'imperio nello
strazio consueto [270-275].--Seguí anzi, strazio nuovo, un interregno di
sei mesi; senato ed esercito si rimbalzavan la scelta; non che conteso,
l'imperio non era piú desiderato. Finalmente fu eletto dal senato Tacito,
un vecchio di settantacinque anni, che morí guerreggiando contro ai goti
dopo altri sei mesi [275-276].--Successero Floriano, fratello di Tacito,
per elezione del senato, e Probo, gridato dall'esercito di Siria. Ed ucciso
in breve il primo dai propri soldati, rimase solo il secondo. Imperiò e
guerreggiò sei anni sul Reno e il Danubio, tra' quali innalzò un gran muro,
vana difesa; fu ucciso al solito dai soldati, i quali tolleravano anche
meno i forti imperatori che non i dappoco [276-282].--Innalzarono Caro
prefetto del pretorio che guerreggiò felicemente contro ai goti, ed
avviatosi contro ai persiani, morí, dicesi, di fulmine [282-284].--E
successero insieme i due figliuoli di lui Carino e Numeriano. Ma in breve,
ucciso Numeriano dal suo prefetto del pretorio, e innalzato a luogo di lui
Diocleziano, e ucciso pur Carino da un tribuno a cui egli avea tolta la
moglie, rimase solo Diocleziano [284-285]. Tristo secolo, deplorabile
imperio, noiosa storia!
10. Diocleziano e i successori fino a Costantino [285-306].--Quando
uno Stato è venuto decadendo per parecchie generazioni, il restaurarlo
è difficile a un uomo solo quantunque grande per sé e per potenza,
perché non trova appoggio nel proprio popolo corrotto; gli è d'uopo
procacciar primamente che sia piú o men rinnovato dall'esempio de'
popoli vicini non corrotti. Ma ciò è impossibile nelle civiltá
corrotte tutt'intiere. Tuttavia un grand'uomo che si trovi in
occasione di tale impresa, non suole, non può tenersi dal non
tentarla; e nella storia, ne' giudizi de' posteri resta poi sempre
dubbio, se il tentativo abbia ritardata o non forse accelerata la
caduta. Ciò avvenne a Diocleziano e Costantino, restauratori, mutatori
indubitati dell'imperio. Propensi noi a lodare chi opera grandemente,
quand'anche sventuratamente, anziché chi aspetta, oziando, la fortuna,
a noi paiono essi tutti e due uomini grandi nati in tempi
dappoco.--Diocleziano vide i due sommi pericoli dell'imperio: le
contese di successione tra i capi degli eserciti, e l'invasione de'
barbari giá prementi su tutti i limiti; e tentò riparare ai due
insieme con un ordinamento grande, un pensiero generoso. Solo signor
dell'imperio, solo augusto, non solamente fece augusto e pari suo
Massimiano, ma in breve aggiunse a sé ed al socio due cesari, o
successori designati, Valerio e Costanzio Cloro. Né furono piú di
quelle associazioni vane od anzi pericolose per l'imperio, utili
solamente all'imperatore che guarantivano: fu vera divisione del
territorio, che non era difendibile oramai da un solo imperatore.
Distribuí le province tra i quattro: l'Asia a sé; Tracia ed Illirico a
Valerio, cesare suo; Italia ed Africa a Massimiano augusto; e Gallia,
Spagna, Britannia e Mauritania a Costanzio, l'altro cesare. Cosí
(essendo tenuta dai due augusti una supremazia sui due cesari),
l'imperio, giá unico, rimase fin d'allora diviso in que' due,
orientale ed occidentale, che mutarono e rimutarono sí continuamente
limiti e signori, ma si ricostituirono e durarono in lor dualitá poco
meno che due altri secoli. Roma e l'Italia giá fin da Caracalla cadute
in condizioni pari alle province, ne decadder molto indubitatamente: e
ne patirono tutti i popoli che ebbero a far le spese a quattro palazzi
imperiali in luogo d'uno; e tanto piú, che moltiplicaronsi d'allora in
poi, in quei palazzi diventati vere corti, le pompe, gli uffici, i
titoli, i rispetti, all'uso antico orientale. Ma i due intenti del
riformatore furono arrivati: le successioni (che nella storia
appaiono, moltiplicandosi e incrociandosi, anche piú complicate)
furono in effetto men contese coll'armi, rimasero piú lungamente nelle
medesime famiglie; e le frontiere difese da quattro principi, ciascuno
dal posto suo, furono, secondo ogni probabilitá, difese meglio che non
sarebbero state da un principe universale, sforzato ad accorrere
dall'oceano settentrionale al golfo persico, e a lasciar un pericolo
d'invasione esterna ed uno d'usurpazione interna in ciascuno degli
eserciti ove non si trovasse.--E di fatti, vinsersi allora facilmente
alcuni competitori: e mantenuti i limiti europei, s'estesero
momentaneamente gli asiatici dall'Eufrate al Tigri. Ma nulla è che
stanchi come una operositá, una fortuna stessa, che si sperimentino
insufficienti allo scopo prefisso. Dopo venti anni di regno glorioso,
Diocleziano abdicò e fece abdicar Massimiano l'augusto, compagno suo
[285-305].--I due cesari, Galerio e Costanzio ne diventarono essi
augusti; ma molto disugualmente, rimanendo al primo (con due nuovi
cesari, Severo e Massimino) l'Oriente, l'Italia e l'Africa, ed al
secondo Britannia, Gallia e Spagna solamente. E morto in breve
Costanzio e succedutogli il figliuolo Costantino, prese il titolo
d'augusto, ma non fu riconosciuto se non come cesare da Galerio [306].
E ne seguirono nuove guerre, finché rimase solo Costantino.
11. Il cristianesimo [1-306].--Ma ci è debito qui accennare i princípi
e i progressi di quella religione cristiana, che, nata coll'imperio,
cresciuta mentre questo decadeva, e compressa, perseguitata fin ora,
salí ora a un tratto a condizione di religione trionfante e
regnante.--Nato in Giudea sotto Augusto, nella famiglia regia ma
decaduta di Davidde, un fanciullo chiamato Gesú, era cresciuto in casa
al mestiero paterno di falegname, e vi si era trattenuto trenta anni;
ed avea predicato poi per tre altri, sé professando il Messia
aspettato da sua nazione, sé il Cristo profetato, sé figliuolo di Dio,
rinnovatore ed estenditore all'intero mondo della religione primitiva
d'un solo Dio. Morto esso al tempo di Tiberio, sulla croce, per opera
degli ebrei che aspettavano un liberatore politico, un Messia
temporale, e che scandalezzandosi abborrivan questo; subito dopo,
dodici discepoli principali di lui, detti «apostoli», e sessanta
altri, tutti gente incolta, popolana, bassissima, e di quella nazione
dispregiatissima, s'eran dispersi ad annunziare il gran fatto che
l'Uomo Dio era risuscitato e salito al cielo, che regnerebbe
spiritualmente a poco a poco sulla terra tutta, fino al fine de'
secoli, ed altre simili novelle, dette fin d'allora da nemici ed amici
«stoltezze de' cristiani», «stoltezze della croce». Eppure furono
credute via via, secondo che si spargevano; e si sparsero prontamente,
largamente. In molte cittá di Giudea, d'Asia, di Grecia, sorsero
adunanze, chiese di cristiani. Il principale de' principali discepoli
ne fondò una in Antiochia, poi in Roma, centro dell'imperio; e questa
fu quindi la principale e centrale di tutte. Cosí l'Italia ebbe da Dio
quest'ufficio di centro della cristianitá: un ufficio, come tutti
quelli di quaggiú, dotato di diritti e vantaggi, carico di doveri, che
vedremo, nella storia seguente, perenni. In quelle chiese o congreghe
primitive s'accumunavano dapprima tutti i beni; poi, tanto almeno da
mantenerne i fratelli poveri; del resto, un solo Dio in cielo, una
sola fede in terra, una sola donna a ciascuno, le passioni umane
condannate, il corpo vilipeso, l'anima eterna sola importante;
insomma, una credenza e una morale purissime, non dissimili veramente
da quelle speculate invano da alcuni filosofi, ma fatte ora effettive,
universali tra questi novatori, ma fondate su principi, su fatti i piú
contrari che potessero essere alla ragione pura, filosofica,
precedente o non ammettente que' fatti. Quindi, non che aiuto,
repulsione, guerra di questi filosofi allora trionfanti, guerra di
ogni uomo dell'antica coltura allora avanzatissima, guerra d'ogni uomo
devoto alle religioni patrie, guerra di ogni uomo di Stato serbatore
di queste contro ai nuovi settari. E quindi supplizi, martíri,
persecuzioni legali contro essi. Dieci principali se ne contano, sotto
Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino,
Decio, Valeriano, Aureliano, e finalmente la piú feroce e piú
universale sotto Diocleziano; imperatori diversi, come si vede, gli
uni tiranni, gli altri buoni, altri grandi, e nel numero Traiano il
sommo uomo di Stato, Marco Aurelio il filosofo, tutti uniti nella
massima di Stato di distrurre la nuova setta. Eppure, tra tante
opposizioni e persecuzioni, e contro ad ogni ragione e probabilitá
filosofica, politica e storica, contro ad ogni andamento consueto
degli eventi umani, queste «stoltezze cristiane» s'erano sparse fin
da' tempi di Traiano cosí, che Plinio si lagnava ne fosser deserti i
templi de' numi patrii, e che al principio del terzo secolo se ne
scorgon pieni il palazzo, Roma, le province, le legioni. E tutto un
altro secolo durò, crebbe, soffrí questa societá religiosa che taluni
osan chiamare setta filosofica o politica, ma che fu tutto
all'opposto; non filosofica, posciaché, imponendo dommi e virtú
asprissime alla natura umana, conquistò pure quelle moltitudini dove
niuna filosofia riuscí mai a penetrare; e non politica nemmeno,
posciaché appunto diventò moltitudine e pluralitá di cittadini, senza
entrar una volta nelle contese, nelle congiure, ne' tumulti, nelle
turpitudini dell'imperio. Ed ora, siam per vedere